martedì 29 luglio 2008

Essere donna להיות אישה

Non ho grandi passioni per l’esotismo, in particolare rivolto verso i miei vicini di casa di Mea Shearim. Sarà che il loro modo di vivere l’ebraismo è molto diverso dal mio, sarà perché non mi piace come vedono e come si comportano nei confronti del nostro Paese. Insomma io a casa mia, loro a casa loro. Massimo rispetto, massima privacy.
Molte tra le persone che conosco sono invece profondamente fascinate dal mondo chassidico, dall’ebraismo "originario" (?). Non so. Fatto sta che se provo a dirgli che anche la mia tradizione riformata ha più o meno quei due-tre secoli, esattamente come il chassidismo, non mi credono. Saremo troppo prosaici per gli animi puri, forse. Una ebbe a dire che venire in una sinagoga reform era come mangiare un biscotto senza sentirne il profumo.

Ad ogni modo, nonostante la mia avversione a volte la curiosità è la curosità. In un anno di vita gerosolimitana non avevamo ancora messo piede in una sinagoga chassidica. Insomma, per farla breve, con un paio di amici, ci siamo dati al “synagogue shopping” e siamo andati per Kabbalat Shabbat in una sinagoga di Mea Shearim, quella dei Breslover. Ci avevano detto che i Breslover sono molto aperti, quasi simpatici. Bah. Probabilmente stavano parlando di qualcun altro. O erano distratti. Non so. I ragazzi al piano di sotto pare che si siano abbastanza divertiti, anche se c’era un caos indiavolato e seguire il filo della tefillà era quasi impossibile. Per noi al piano di sopra è andata peggio.

Trovata con una certa fatica la porta dell’esrat nashim, della sezione riservata alle donne. Ci siamo inerpicate per una ripida e stretta scaletta, ingorgata di passeggini, bambine infiocchettate e donne di tutte le età affaccendate a rincorrerle. Arrivate finalmente alla nostra stanza non volevamo crederci. La stanza è una stanza chiusa, quasi senza finestre, piena di panche orientate regolarmente verso il cuore di Gerusalemme, cioè verso un muro bianco con una finestrella mezza rotta. Una parete della stanza è composto dalla metà in su da una grata fittissima, da cui non si vede assolutamente nulla a meno di non incollare un occhio alle fessurine dell’intreccio. Cosa alquanto difficile, anche perché le panche sono disposte perpendicolarmente alla grata e quindi solo le poche donne che sono accanto alla grata riescono a vedere qualcosa. E a dire il vero pare anche che non interessi neppure tanto. Tanto le scale sono affollate, tanto la stanza è silenziosa; non si sente neanche il consueto rumore di fondo della tefillà detta a mezza bocca. Tutte stanno pregando. In completo silenzio. Solo il rumore dei ventilatori. Ventilatori che fra l’altro, stando esattamente sopra la grata, impediscono di sentire qualsiasi suono che provenga da una decina di metri più sotto dalla sala degli uomini. Ad un cero punto dal piano di sotto si leva un turbinio di voci, qualche bambina corre verso la grata. Dopo poco tutte ci giriamo verso occidente. Era il Lekhà dodì. Buono a sapersi. Ad ogni modo, a quel punto avevamo già deciso di andarcene. Volevamo chiedere a qualcuno di dire ai nostri mariti di uscire, ma niente da fare. Ovviamente agli adulti non potevamo parlare perché non si rivolgono alle donne, i ragazzetti invece erano tutti presi a giocare che non ci davano certo retta a noi che tra l’altro eravamo di fuori. Insomma abbiamo passato l’ora successiva a camminare tra le stradine di Mea Shearim. Ve ze’hu. Shabbat shalom.

Mi hanno detto tante volte che noi donne non possiamo partecipare al culto per tante ragioni. Perché non dobbiamo imitare quello che fanno gli uomini. Perché abbiamo già tante miztvot specificamente femminili. Perché siamo già più elevate degli uomini e quindi non abbiamo bisogno di pregare (ed è per questo che stiamo in alto, nel matroneo). Mi avevano detto anche che la voce di una donna non si deve sentire in preghiera, perché è come una nudità e potrebbe portare gli uomini che devono pregare verso cattivi pensieri. Non mi è stato mai detto che l’intero essere donna sia così sbagliato che dobbiamo essere completamente ignorate. Non mi sono mai sentita così inutile. Posso anche cercare di capire la bacata logica che dalla halakhà porta ad un ampliamento tale della miztvà. Non posso comprendere, né giustificarlo.

Insomma io a casa mia, loro a casa loro. Massimo rispetto, massima privacy. Anche del mio modo di cucinare i biscotti, però.

lunedì 21 luglio 2008

Ma allora è a questo che servono!

Sembra che tutte le mie amiche in Italia e non, quest'anno si siano messe a figliare. Neanche ci fossimo messe d'accordo. Le esperienze che vengono dalle sale parto sono le più disparate. Ancora più disparate sono le notizie che arrivano una volta tornate a casa. Pannolini. Notti in bianco. E le poppate.
Se non ho capito male, in Italia si tratta anche di un problema "politico", dopo la manifestazione delle mamme in piazza con poppata collettiva di un mese fa. Ma da qui tutto sembra molto lontano. Nessuno si sognerebbe mai di dire che stai facendo un atto osceno in luogo pubblico se allatti tuo figlio al ristorante o in un parco.
Al di là della questione pubblica, però è l'aspetto personale che mi ha lasciata perplessa. Dalla testimonianze di vita vissuta pare che questa attività propria di tutti i mammiferi si stia atrofizzando nella specie umana. Perché il bimbo non si attacca. Perché le è andato via il latte. Perché ha avuto il cesareo... La cosa mi ha talmente impressionata che mi sono pure messa a guardare, tra una poppata e l'altra, i forum di allattamento. E, incredibile a dirsi, ecco le stesse situazioni e a quanto pare soprattutto gli stessi consigli dei pediatri.
Caso I - "Pesi il bimbo prima, poi lo tenga attaccato solo cinque minuti per seno. Tanto poi non tirano più latte, ciucciano solo perché gli piace. Poi lo ripesi e quel che manca alla quantità X che ho detto glielo dia di artificiale."
Caso II - "La bambina piange dopo pochi minuti che si è attaccata? Si vede che ha poco latte. Gli dia la giunta di artificiale."
Caso III - "Se ha fatto il cesareo, non può mica avere il latte."
In base alla mia scarsissima esperienza di quasi 5 mesi, di fronte a queste risposte di dottori mi sorgono solo delle nuove domande.
Caso I - Come mai le ostetriche e la letteratura sull'argomento dicono che il minimo di una poppata che sazi per un bel po' un bimbo sono 20 minuti e che anzi bisogna avere un bel po' di pazienza soprattutto all'inizio? E poi anche se il bimbo restasse sul seno per piacere, ci sarebbe qualcosa di male? Dove sta scritto che con l'allattamento diamo solo latte ai nostri cuccioli?
Caso II - Come mai non è venuto in mente a questo signor dottore che forse la bimba ha soltanto un ruttino da fare? Se ci sono arrivata io da sola, perché non dovrebbe arrivarci un laureato in medicina? Inoltre, non lo sa il dottore che meno latte si tira e meno ce n'è?
Caso III - Come mai tutte le donne che ho visto in ospedale io che hanno fatto un cesareo stavano allattando? Perché esisterebbero delle posizioni per allattare in modo più comodo dopo un cesareo, se fosse fisicamente impossibile avere il latte?
Insomma, capisco perfettamente la sfortuna. Ci sta nella vita e ho nel cuore tutte le mamme che per un problema o per un altro non possono allattare. E mi dico, meno male che adesso ci sono anche dei buoni latti artificiali. Ma può starci la sfiga di qualcuna, non la debacle del versante femminile del genere umano!
Che cos'è dunque che non funziona, visto che fino a prova contraria sono millenni che le tette sono prodotte secondo lo stesso modello?
La mia impressione è che a mancare siano soprattutto qualche iniezioni di fiducia in se stesse e di pazienza alla mamma, la certezza di non essere sole e sapere che le cose vanno esattamente come devono andare. Soprattutto, dai racconti che mi arrivano dall'Italia mi pare che manchi un supporto immediato e continuato. Perché -sì- dà tante soddisfazioni allattare, ma può essere anche pesante. Tanto pesante.
La mia esperienza qui all'ospedale Hadassah di Gerusalemme è stata molto diversa. Quando il mio piccolo è nato di poco più di 2 chili alla fine dell'ottavo mese di gravidanza, era palesemente troppo debole per ciucciare direttamente il latte dal seno, ma assolutamente bisognoso di prenderne in abbondanza e in modo costante. Un po' sconsolata per come era andato il parto e davanti a quello scricciolo che davvero avevo paura di rompere, mi sono vista avvicinare da una matronesca infermiera russa. Per prima cosa ha cominciato a far collaborare mio marito (il quale certo voleva farlo, ma come me non sapeva da dove cominciare) e lo ha spedito a prendere in comodato una macchinetta tira latte. Poi a quattr'occhi mi ha spiegato come usarla. Mi ha detto che ce la potevo fare, che la macchinetta poteva aiutarmi ad avere il latte fino a che Dov non fosse stato in grado di prenderlo da solo. Che non mi dovevo preoccupare se all'inizio era poco, che sarebbe venuto di sicuro e che in ogni caso lei era lì. Che la chiamassi.
Ho vivissima l'immagine di quando ho portato i primi cc di colostro all'infermiera. Fiera come avessi fatto le uova d'oro. Ma anche con una grande paura perché vedevo che era poco. Mi ha fatto i complimenti (come fossi stata una brava mucchina...). Con cura ha preso una siringa e lo ha messo nel bakbuk di Dov e me lo ha dato.
Sentire di star facendo una cosa importante, che solo io potevo fare e che proprio per questo meritavo tutto il supporto possibile.
Proprio per questo consiglio due cose.
Per chi si trovasse in situazioni di emergenze provate a contattare la Leche League (c'è in tutto il mondo).
Per chi ancora fosse in tempo per prepararsi, consiglio di leggersi: So that's what they are for! di Janet Tamaro. Un consiglio di una amica americana: spassosissimo e utilissimo.

lunedì 7 luglio 2008

indipendence day

Pensando a tutti gli amici che questo anno mi hanno fatto capire la loro America.
Hope you had a happy July 4th!



IF I HAD A HAMMER (The Hammer Song)
words and music by Lee Hays and Pete Seeger

If I had a hammer
I'd hammer in the morning
I'd hammer in the evening
All over this land
I'd hammer out danger
I'd hammer out a warning
I'd hammer out love between my brothers and my sisters
All over this land

If I had a bell
I'd ring it in the morning
I'd ring it in the evening
All over this land
I'd ring out danger
I'd ring out a warning
I'd ring out love between my brothers and my sisters
All over this land

If I had a song
I'd sing it in the morning
I'd sing it in the evening
All over this land
I'd sing out danger
I'd sing out a warning
I'd sing out love between my brothers and my sisters
All over this land

Well I've got a hammer
And I've got a bell
And I've got a song to sing
All over this land
It's the hammer of justice
It's the bell of freedom
It's the song about love between my brothers and my sisters
All over this land

giovedì 3 luglio 2008

a quattro mesi

Dov ha quattro mesi e una settimana.
A quattro mesi Dov mangia solo il mio latte. E lo vuole solo da me. Se devo uscire e glielo metto nel bakbuk, così glielo può dare il babbo, lui non lo vuole. Fa lo sciopero della fame fino a che non torno.
A quattro mesi Dov adora addormentarsi sul mio seno dopo aver mangiato. In tanti mi dicono che sarebbe meglio non fargli prendere questa abitudine, ma a lui piace tanto. E anche a me.
A quattro mesi Dov ha imparato a ridere a voce alta. Tutte le volte che gli faccio delle facce strane si mette a ridere forte.
A quattro mesi Dov si sente dire almeno mille volte al giorno che la sua mamma gli vuole tanto bene e che sarà sempre con lui.
A più o meno quattro mesi è anche possibile perdere la propria mamma. Portata via da una ruspa con alla guida un terrorista assassino.

http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-3563428,00.html